Incroyable mais vrai...
Deux mille ans après sa mort, Ovide va être officiellement réhabilité !
Ceux qui en doutent sont invités à lire ou se faire traduire l'article suivant, que m'a fait parvenir - grand merci à elle - une amie d'Ovide, Véronique Cirefice.
Nous pourrons donc nous réjouir et chanter ensemble "Nunc est bibendum !", "Maintenant, il faut boire !" pour célébrer cette victoire, certes tardive, mais qui invite à ne pas désespérer de la justice des hommes...
Roma “riabilita” Ovidio dopo duemila anni
L’Assemblea civica capitolina vota la mozione per la revoca dell’esilio del poeta sulmonese accusato da Augusto
Il presidente dell'Assemblea capitolina, Marcello De Vito, ha dato incarico agli uffici di preparare una mozione che revochi il decreto con cui l'VIII d.C. l'imperatore relegò Ovidio a Tomi, sul Mar Nero. La “relegatio”, in base al diritto romano, andava comminata a seguito di un pubblico processo e ratificata dal Senato. L'imperatore, invece, da dittatore qual era, decise da solo. Approvando la mozione, che De Vito farà inserire all'ordine del giorno, l'Assise capitolina – che rappresenta idealmente la continuità storica del Senato romano – potrà finalmente riparare al grave torto fatto a Ovidio da Augusto.
Per dare risonanza all'evento, alla seduta del consiglio che delibererà sulla riabilitazione postuma di Ovidio saranno invitate a partecipare delegazioni di studenti di Roma e di Sulmona. Al fine di agevolare tale partecipazione, la revoca della “relegatio” al poeta dovrebbe avvenire entro ottobre. Se Sulmona, patria di Publio Ovidio Nasone, potrà realizzare finalmente questo sogno, il merito va alla Città stessa stessa, che ha fatto di tutto per dimostrare che il suo figlio più illustre non meritava di essere bandito da Roma, perché innocente, e al presidente dell'Assemblea capitolina De Vito, che a differenza dei suoi predecessori ha preso in seria considerazione la delibera, approvata all'unanimità, dal consiglio comunale della città peligna il 16 marzo 2012. Con la quale veniva recepita la sentenza di assoluzione di Ovidio nel “processo d'appello”, celebrato il 9 dicembre 2011, e la si trasmetteva all'Assemblea capitolina perché revocasse la “relegatio”.
Il processo di primo grado era stato celebrato il 10 dicembre 1967, un decennio dopo la celebrazione del bimillenario ovidiano. Allora la giuria era presieduta da Francesco Della Corte, insigne latinista. Come lo erano il pubblico ministero: il romeno Nicolae Lascu, e il difensore, Francesco Arnaldi. Nel processo d'appello, invece, a pronunciarsi sulla colpevolezza o innocenza del poeta sono stati dei profondi conoscitori del diritto: presidente della giuria il giudice Franco Cavallone; pm l'avvocato Giovanni Margiotta; difensore, l'avvocato Vittorio Masci.
I reati contestati al poeta sono due: corruzione dei costumi e della pubblica moralità e attentato alla sicurezza dell'imperatore. Che sarebbero poi un “carmen” e un “error”: colpe alle quali lo stesso Ovidio nei “Tristia”, scritti durante l'esilio, attribuisce la sua condanna. Il carmen è sicuramente l'”Ars amatoria”, un poema «licenzioso e lascivo», che contrastava con la politica moralizzatrice perseguita da Augusto. Che però era stato scritto 7 anni prima. Esso pertanto potrebbe essere stato solo un pretesto per coprire un'accusa più grave: l’ “error” appunto. Quale sia questo reato, rimane un mistero.
Ovidio parla di una leggerezza: aveva visto qualcosa che non doveva vedere. Altro non dice. Il contesto in cui il fatto si verificò fu probabilmente quello della lotta tra i sostenitori della candidatura alla successione di Augusto di un esponente della gens Iulia, capeggiati da Giulia minore e dal fratello Agrippa, nipoti dell'imperatore (che non aveva figli maschi), e i sostenitori di un esponente della gens Claudia, capeggiati dall'imperatrice Livia, che tramava perché il successore di Augusto fosse il figlio Tiberio, avuto dal precedente matrimonio con Tiberio Claudio Nerone.
Ovidio, che parteggiava per la gens Iulia, potrebbe aver partecipato, anche da semplice spettatore, a qualche evento compromettente. E poiché vi erano coinvolti anche i familiari di Augusto, questi, temendo il clamore che il caso avrebbe avuto, evitò il processo pubblico e inflisse a Ovidio, probabilmente in cambio del suo silenzio, una pena mite: la “relegatio” anziché l'“exilium”, che avrebbe comportato anche la confisca dei beni e la perdita della cittadinanza. Non è casuale che la stessa Giulia minore sia stata relegata alle isole Tremiti lo stesso anno di Ovidio.
Nel processo di primo grado il poeta fu assolto con formula piena per il primo capo d'imputazione (il carmen) e per insufficienza di prove per il secondo (l'error). In appello invece è stato assolto con formula piena da entrambi i capi d'accusa. «Per quanto riguarda la corruzione dei costumi», si legge nella sentenza, «la responsabilità di Ovidio non è stata dimostrata» e gli argomenti addotti contro di lui sono risultati «pretestuosi e insussistenti». Riguardo alla partecipazione diretta del poeta a una congiura contro l'imperatore, «l'accusa non ha fornito alcuna prova». I giudici individuano la causa dell'allontanamento di Ovidio da Roma nell'ostilità di Livia nei suoi confronti. «Ovidio», spiega la sentenza, «non nascondeva la sua adesione a quanti sostenevano la successione ad Augusto di un esponente della gens Iulia, contro le manovre di Livia di assicurare invece il trono al figlio Tiberio. È dato dedurre pertanto, con sufficiente attendibilità, che il provvedimento della “relegatio” sia stata opera della stessa Livia, che su Augusto aveva una forte ascendenza. L'errore di Ovidio era stato, dunque, quello di dichiarare apertamente la sua avversione alla candidatura di Tiberio alla guida dell'Impero». «Ritenuta l'infondatezza delle accuse e l'illegittimità e l'ingiustizia della "relegatio" comminata al poeta», concludono i giudici, «il tribunale assolve Ovidio da ogni reato a lui ascritto e ordina la revoca della "relegatio" e la restituzione del poeta alla libertà e a Roma e, nell'eternità dell'Urbe, all'arte universale».
Riabilitando Ovidio, nel bimillenario della sua morte, Roma non poteva rendergli onore più grande.